LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Benevento nei confronti di De Nisi Vincenzo, nato a San Leucio del Sannio il 30 ottobre 1952 avverso la sentenza del Giudice di pace di Benevento in data 4 maggio 2006. Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal consigliere Piercamillo Davigo. Udita la requisitoria del sostituto procuratore generale, dott. Giuseppe Febbraro il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile. Udito il difensore che ha concluso per raccoglimento del ricorso, osserva. Motivi della decisione Con sentenza del 4 maggio 2006, il Giudice di pace di Benevento assolse De Nisi Vincenzo dal reato di cui all'art. 638 cod. pen. perche' il fatto non sussiste, peraltro sull'assunto che non era provata la sussistenza in capo all'imputato dell'elemento soggettivo del reato (identificato con la coscienza e volonta) in quanto l'incidente in cui fu ucciso il cane di proprieta' della parte civile Russo Lucia avrebbe potuto dipendere da uno sbandamento dell'autovettura condotta dall'imputato. Il primo giudice rilevava altresi' che i testi dell'accusa e della parte civile si erano contraddetti (tanto che fu disposta la trasmissione degli atti al p.m. per l'ipotesi di falsa testimonianza) e che l'imputato aveva provato che al momento dell'incidente si trovava in altro luogo a fungere da autista alla moglie. Ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Benevento (su sollecitazione della parte civile) deducendo violazione della legge penale e vizio di motivazione in quanto la motivazione della sentenza impugnata e' in contrasto con la formula adottata nel dispositivo e si fonda su una premessa, lo sbandamento dell'auto, di cui non vi sarebbe traccia in atti, pur dando atto che i fatti si erano svolti come esposto dalla parte civile, ma contestualmente valutando come contraddittorie le testimonianze dei testimoni indicati dall'accusa e dalla parte civile. Ancora la sentenza impugnata, pur affermando che l'imputato avrebbe provato di essere stato altrove al momento dell'incidente, non considera che il teste Castaldo Giancarlo (sulla cui deposizione si fonderebbe l'affermazione) aveva affermato di non avere specifici ricordi per il giorno dell'incidente. Il ricorso dovrebbe essere convertito in appello se non vi ostasse una disposizione di legge che questa Corte sospetta essere costituzionalmente illegittima (come del resto ha ritenuto il Tribunale di Tempio Pausania che ha sollevato la relativa questione con ordinanza in data 11 aprile 2006 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 1 del 3 gennaio 2007). Si deve infatti rilevare che il ricorso e' stato proposto in data 12 giugno 2006, vale a dire dopo la modifica dell'art. 36 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, ad opera dell'art. 9, comma 2, legge 20 febbraio 2006, n. 46, che ha soppresso la possibilita' per il pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pene alternative qual e' appunto quello di cui all'art. 638 cod. pen. Occorre anche ricordare che la Corte costituzionale, con sentenza n. 26 del 24 gennaio 2007, depositata il 6 febbraio 2007, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, "nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova e' decisiva", nonche' dell'art. 10, comma 2, della citata legge n. 46/2006, "nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge e' dichiarato inammissibile". Le ragioni poste a base della pronunzia della Corte costituzionale appaiono applicabili anche all'art. 36 d.lgs. n. 274/2000 citato. Infatti la Corte costituzionale, nella sentenza sopra indicata n. 26/2007, ha cosi' motivato: «4. - In riferimento all'art. 111, secondo comma, Cost., la questione e' fondata. Giova premettere come, secondo quanto reiteratamente rilevato da questa Corte, il secondo comma dell'art. 111 Cost., inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione) - nello stabilire che "ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita' - abbia conferito veste autonoma ad un principio, quello di parita' delle parti, "pacificamente gia' insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali" (ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001). Anche dopo la novella costituzionale, resta pertanto pienamente valida l'affermazione - costante nella giurisprudenza anteriore della Corte (ex plurimis, sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e n. 363 del 1991; ordinanze n. 426 del 1998, n. 324 del 1994 e n. 305 del 1992) - secondo la quale, nel processo penale, il principio di parita' tra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato: potendo una disparita' di trattamento "risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia" (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001). Alla luce di tale consolidato indirizzo, le fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale, correlato alle diverse condizioni di operativita' e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici - essendo l'una un organo pubblico che agisce nell'esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi; l'altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis, quello di liberta' personale), sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna impediscono di ritenere che il principio di parita' debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell'iter processuale, in un'assoluta simmetria di poteri e facolta'. Alterazioni di tale simmetria - tanto nell'una che nell'altra direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) - sono invece compatibili con il principio di parita', ad una duplice condizione: e, cioe', che esse, per un verso, trovino un'adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalita' esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute - anche in un'ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparita' di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s'innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira (si vedano le sentenze n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994) entro i limiti della ragionevolezza. Tale vaglio di ragionevolezza va evidentemente condotto sulla base del rapporto comparativo tra la ratio che ispira, nel singolo caso, la norma generatrice della disparita' e l'ampiezza dello "scalino" da essa creato tra le posizioni delle parti: mirando segnatamente ad acclarare l'adeguatezza della ratio e la proporzionalita' dell'ampiezza di tale "scalino" rispetto a quest'ultima. Siffatta verifica non puo' essere pretermessa, se non a prezzo di un sostanziale svuotamento, in parte qua, della clausola della parita' delle parti: non potendosi ipotizzare, ad esempio, che la posizione di vantaggio di cui fisiologicamente fruisce l'organo dell'accusa nella fase delle indagini preliminari, sul piano della ricchezza degli strumenti investigativi - posizione di vantaggio che riflette il ruolo istituzionale di detto organo, avuto riguardo anche al carattere "invasivo" e "coercitivo" di determinati mezzi d'indagine abiliti di per se' sola il legislatore, in nome di un'esigenza di "riequillbrio", a qualsiasi deminutio, anche la piu' radicale, dei poteri del pubblico ministero nell'ambito di tutte le successive fasi. Una simile impostazione - negando, di fatto, l'esistenza di limiti di compatibilita' costituzionale alla distribuzione asimmetrica delle facolta' processuali tra i contendenti - priverebbe di ogni concreta valenza la clausola di parita': risultato, questo, tanto meno accettabile a fronte della sua attuale assunzione ad espresso ed autonomo precetto costituzionale. 5. - All'indicata chiave di lettura si e', in effetti, costantemente ispirata la giurisprudenza di questa Corte relativa alla tematica - che viene qui specificamente in rilievo - delle possibili dissimmetrie a sfavore del pubblico ministero in punto di poteri di impugnazione. 5.1. - Nello scrutinare le questioni di legittimita' costituzionale sollevate a tal proposito, questa Corte ha sempre recapito come corretta la premessa fondante di esse: che, cioe', la disciplina delle impugnazioni, quale capitolo della complessiva regolamentazione del processo, si collochi anch'essa - sia pure con le peculiarita' che poco oltre si evidenzieranno - entro l'ambito applicativo del principio di parita' delle parti; premessa, questa, la cui validita' deve essere confermata. Il principio in parola non e' infatti suscettibile di una interpretazione riduttiva, quale quella che - facendo leva, in particolare, sulla connessione proposta dall'art. 111, secondo comma, cost. tra parita' delle parti, contraddittorio, imparzialita' e terzieta' del giudice - intendesse negare alla parita' delle parti il ruolo di connotato essenziale dell'intero processo, per concepirla invece come garanzia riferita al solo procedimento probatorio: e cio' al fine di desumerne che l'unico mezzo d'impugnazione, del quale le parti dovrebbero indefettibilmente fruire in modo paritario, sia il ricorso per cassazione per violazione di legge, previsto dall'art. 111, settimo comma, Cost. Una simile ricostruzione finirebbe difatti per attribuire al principio di parita' delle parti, in luogo del significato di riaffermazione processuale dei principi di cui all'art. 3 Cost., una antitetica valenza derogatoria di questi ultimi: soluzione tanto meno plausibile a fronte del tenore letterale della norma costituzionale, nella quale la parita' delle parti e' enunciata come regola generalissima, riferita indistintamente ad "ogni processo" e senza alcuna limitazione a determinati momenti o aspetti dell'iter processuale. Ne' puo' trarsi argomento, in contrario, dallo specifico risalto che il legislatore costituzionale ha inteso assegnare al valore del contraddittorio nel processo penale, attestato dalle puntuali "direttive" al riguardo impartite nel quarto e nel quinto comma dell'art. 111 Cost.: non potendosi ritenere, anche sul piano logico, che tale distinto valore - anziche' affiancarsi, rafforzandolo, al principio di parita' - sia destinato ad esplicare un ruolo limitativo del medesimo; cosi' da legittimare l'idea palesemente inaccettabile rispetto ad altri tipi di processo, quale, ad esempio, il processo civile - per cui, nel processo penale, la clausola di parita' opererebbe solo nei confini del procedimento di formazione della prova. 5.2. - Cio' posto, questa Corte ha ribadito che, anche per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni, parita' delle parti non significa, nel processo penale, necessaria omologazione di poteri e facolta'. A tal proposito - sulla premessa che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per se', di riconoscimento costituzionale (ex plurimis, sentenza n. 280 del 1995; ordinanza n. 316 del 2002) - questa Corte ha in particolare rilevato come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenti margini di "cedevolezza" piu' ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell'imputato. Il potere di impugnazione della parte pubblica trova, infatti, copertura costituzionale unicamente entro i limiti di operativita' del principio di parita' delle parti - "flessibile" in rapporto alle rationes dianzi evidenziato - non potendo essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale, di cui all'art. 112 Cost. (sentenza n. 280 del 1995; ordinanze n. 165 del 2003, n. 347 del 2002, n. 421 del 2001 e n. 426 del 1998); mentre il potere di impugnazione dell'imputato viene a correlarsi anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza di resistenza di fronte a sollecitazioni di segno inverso (sentenza n. 98 del 1994). Cio' non toglie, tuttavia, che le eventuali menomazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere dell'imputato, debbano comunque rappresentare - ai fini del rispetto del principio di parita' - soluzioni normative sorrette da una ragionevole giustificazione, nei termini di adeguatezza e proporzionalita' dianzi lumeggiati: non potendosi ritenere, anche su questo versante - se non a prezzo di svuotare di significato l'enunciazione di detto principio con riferimento al processo penale - che l'evidenziata maggiore "flessibilita'" della disciplina del potere di impugnazione del pubblico ministero legittimi qualsiasi squilibrio di posizioni, sottraendo di fatto, in radice, le soluzioni normative in subiecta materia allo scrutinio di costituzionalita'. 5.3. - In simile ottica, questa Corte si e' quindi ripetutamente pronunciata - tanto prima che dopo la modifica dell'art. 111 Cost. nel senso della compatibilita' con il principio di parita' delle parti della norma che escludeva l'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di giudizio abbreviato, anche nella sola forma dell'appello incidentale, salvo si trattasse di sentenza modificativa del titolo del reato (artt. 443, comma 3, e 595 cod. proc. pen.). Al riguardo, si e' infatti osservato come la soppressione del potere della parte pubblica di impugnare nel merito decisioni che segnavano "comunque la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel processo attraverso l'azione intrapresa" - essendo lo scarto tra la richiesta dell'accusa e la sentenza sottratta all'appello non di ordine "qualitativo", ma meramente "quantitativo" - risultasse razionalmente giustificabile alla luce dell'"obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo di cui si tratta" (sentenza n. 363 del 1991; ordinanze n. 305 del 1992 e n. 373 del 1991): rito che - sia pure per scelta esclusiva dell'imputato, dopo le modifiche attuate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 - "implica una decisione fondata, in primis, sul materiale probatorio raccolto dalla parte che subisce la limitazione censurata, fuori delle garanzie del contraddittorio" (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001). Tali caratteristiche del giudizio abbreviato - che conferiscono un particolare risalto alla dissimmetria di segno opposto, riscontrabile a favore del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, le cui risultanze sono direttamente utilizzabili ai fini della decisione (al riguardo, si veda la sentenza n. 98 del 1994) - valevano, dunque, a rendere la scelta normativa in discorso "incensurabile sul piano della ragionevolezza in quanto proporzionata al fine preminente della speditezza del processo" (sentenza n. 363 del 1991). Fine al quale non avrebbe potuto essere invece sacrificato - per la ragione dianzi indicata - lo speculare potere di impugnazione dell'imputato (sentenza n. 98 del 1994). 6. - Ben diversa e' la situazione nel caso oggetto dell'odierno scrutinio di costituzionalita'. 6.1. - Al di sotto dell'assimilazione formale delle parti - "il pubblico ministero e l'imputato possono appellare contro le sentenze di condanna" (ergo, non contro quelle di proscioglimento) - la norma censurata racchiude una dissimmetria radicale. A differenza dell'imputato, infatti, il pubblico ministero viene privato del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda totalmente soccombente, negando per integrum la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere con l'azione intrapresa, in rapporto a qualsiasi categoria di reati. Ne' varrebbe, al riguardo, opporre che l'inappellabilita' - sancita per entrambe le parti - delle sentenze di proscioglimento si presta a sacrificare anche l'interesse dell'imputato, segnatamente allorche' il proscioglimento presupponga un accertamento di responsabilita' o implichi effetti sfavorevoli. Tale conseguenza della riforma - in ordine alla quale sono stati prospettati ulteriori e diversi problemi di costituzionalita', di cui la Corte non e' chiamata ad occuparsi in questa sede - non incide comunque sulla configurabilita' della rilevata sperequazione, per cui una sola delle parti, e non l'altra, e' ammessa a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a se' completamente sfavorevole. E' evidente, poi, come tale sperequazione non venga attenuata, se non in modo del tutto marginale, dalla previsione derogatoria di cui al comma 2 dell'art 593 cod. proc. pen., in forza della quale l'appello contro le sentenze di proscioglimento e' ammasso nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado: previsione non presente nel testo originariamente approvato dal Parlamento, ma introdotta a fronte dei rilievi su di esso formulati dal Presidente della Repubblica con il messaggio trasmesso alle Camere il 20 gennaio 2006 ai sensi dell'art. 74, primo comma, Cost., nel quale si era segnalato, tra l'altro, come "la soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento" determinasse - stante la "disorganicita' della riforma" una condizione di disparita' "delle parti nel processo" ... che supera quella compatibile con la diversita' delle funzioni svolte dalle parti stesse". Risulta, infatti, palese come l'ipotesi considerata - sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive nel corso del breve termine per impugnare (art. 585 cod. proc. pen. ) presenti connotati di eccezionalita' tali da relegarla a priori ai margini dell'esperienza applicativa (oltre a non coprire, ovviamente, l'errore di valutazione nel merito). Altrettanto evidente, ancora, e' come l'eliminazione del potere di appello del pubblico ministero non possa ritenersi compensata - per il rispetto del principio di parita' delle parti - dall'ampliamento dei motivi del ricorso per cassazione, parallelamente operato dalla stessa legge n. 46 del 2006 (lettere d ed e dell'art. 606, comma 1, cod. proc. pen., come sostituite dall'art. 8 della legge): e cio' non soltanto perche' tale ampliamento e' sancito a favore di entrambe le parti, e non del solo pubblico ministero; ma anche e soprattutto perche' - quale che sia l'effettiva portata dei nuovi e piu' ampi casi del ricorso - il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito dall'appello. 6.2. - La rimozione del potere di appello del pubblico ministero si presenta, per altro verso, generalizzata e unilaterale E' generalizzata, perche' non e' riferita a talune categorie di reati, ma e' estesa indistintamente a tutti i processi: di modo che la riforma, mentre lascia intatto il potere di appello dell'imputato, in caso di soccombenza, anche quando si tratti di illeciti bagatellari - salva la preesistente eccezione relativa alle sentenze di condanna alla sola pena dell'ammenda (art. 593, comma 3, cod. proc. pen.; si veda, altresi', per i reati di competenza del giudice di pace, l'art. 37 del d.lgs. 28 agosto 2000, n 274) fa invece cadere quello della pubblica accusa anche quando si discuta dei delitti piu' severamente puniti e di maggiore allarme sociale, che coinvolgono valori di primario rilievo costituzionale. E' "unilaterale", perche' non trova alcuna specifica "contropartita" in particolari modalita' di svolgimento del processo - come invece nell'ipotesi gia' scrutinata dalla Corte in relazione al rito abbreviato, caratterizzata da una contrapposta rinuncia dell'imputato all'esercizio di proprie facolta', atta a comprimere i tempi processuali - essendo sancita in rapporto al giudizio ordinario, nel quale l'accertamento e' compiuto nel contraddittorio delle parti, secondo le generali cadenze prefigurate dal codice di rito. 7. - A fronte delle evidenziate connotazioni, l'alterazione del trattamento paritario dei contendenti, indotta dalla norma in esame, non puo' essere giustificata, in termini di adeguatezza e proporzionalita', sulla base delle rationes che, alla stregua dei lavori parlamentari si collocano alla radice della riforma. 7.1. - A sostegno della soluzione normativa censurata, si e' rilevato, anzitutto, che l'avvenuto proscioglimento in primo grado - rafforzando la presunzione di non colpevolezza impedirebbe che l'imputato, gia' dichiarato innocente da un giudice, possa essere considerato da altro giudice colpevole del reato contestatogli "al di la' di ogni ragionevole dubbio", secondo quanto richiesto, ai fini della condanna, dall'art. 533, comma 1, cod. proc. pen., come novellato dall'art. 5 della stessa legge n. 46 del 2006. In simile situazione, la reiterazione dei tentativi dello Stato per condannare un individuo gia' risultato innocente verrebbe dunque ad assumere una connotazione "persecutoria", contraria ai "principi di uno Stato democratico" (in questo senso, in particolare, l'illustrazione della proposta di legge A.C. 4604 da parte dei relatori alla Commissione giustizia della Camera dei deputati). Al riguardo, e' peraltro sufficiente osservare come la sussistenza o meno della colpevolezza dell'imputato "al di la' di ogni ragionevole dubbio" rappresenti la risultante di una valutazione: e la previsione dl un secondo grado di giurisdizione di merito trova la sua giustificazione proprio nell'opportunita' di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado, che non avrebbe senso dunque presupporre esatte, equivalendo cio' a negare la ragione stessa dell'istituto dell'appello. In effetti, se il doppio grado mira a rafforzare un giudizio di "certezza"; esso non puo' non riflettersi sui diversi approdi decisori cui il giudizio di primo grado puo' pervenire: quello di colpevolezza, appunto, ma, evidentemente, anche quello - antitetico - di innocenza. In tale ottica, l'iniziativa del pubblico ministero volta alla verifica dei possibili (ed eventualmente, anche evidenti) errori commessi dal primo giudice, nel negare la responsabilita' dell'imputato, non puo' qualificarsi, in se', "persecutoria" essa ha, infatti, come scopo istituzionale quello di assicurare la corretta applicazione della legge penale nel caso concreto e - tramite quest'ultima - l'effettiva attuazione dei principi di legalita' e di eguaglianza, nella prospettiva della tutela dei molteplici interessi, connessi anche a diritti fondamentali, a cui presidio sono poste le norme incriminatrici. 7.2. - A fondamento della scelta legislativa in esame viene allegata, per altro verso, l'esigenza di uniformare l'ordinamento italiano alle previsioni dell'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98; nonche' dell'art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881. Tali norme internazionali pattizie prevedono che ogni persona condannata per un reato ha diritto a che l'accertamento della sua colpevolezza o la condanna siano riesaminati da un tribunale superiore o di seconda istanza: principio che - si sostiene - verrebbe vulnerato nel caso di condanna dell'imputato in secondo grado, conseguente all'appello del pubblico ministero avverso la sentenza di proscioglimento emessa in primo grado (in questa prospettiva, si veda la relazione del proponente alla proposta di legge A.C. 4604). Con riguardo ad entrambe le norme, questa Corte ebbe, peraltro, gia' in precedenza a rilevare come il riesame ad opera di un tribunale superiore, da esse previsto a favore dell'imputato, non debba necessariamente coincidere con un giudizio di merito, anziche' con il ricorso per cassazione; e cio' perche' l'obiettivo perseguito e' quello di "assicurare comunque un istanza davanti alla quale fare valere eventuali errori in procedendo o in iudicando commessi nel primo giudizio, con la conseguenza che il riesame nel merito interverra' solo ove tali errori risultino accertati" (sentenza n. 288 del 1997; si veda, altresi', la sentenza n. 62 del 1981). Al riguardo, non e', d'altro canto, senza significato la circostanza che il legislatore costituzionale del 1999 - nel riformulare l'art. 111 Cost., nell'ottica di un suo adeguamento al principi del "giusto processo" - non sia intervenuto sul tema delle impugnazioni, continuando a riferirsi al ricorso per cassazione per violazione di legge come unico rimedio impugnatorio costituzionalmente imposto. Dirimente e', peraltro, il rilievo che, alla luce della disciplina - piu' recente ed analitica di quella del Patto internazionale - dell'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convezione europea (su cui soprattutto fanno leva i lavori parlamentari), il diritto della persona dichiarata colpevole di un reato al riesame della "dichiarazione di colpa o di condanna", da parte di un tribunale superiore, puo' essere oggetto di eccezioni - oltre che "in caso di infrazioni minori" e "in casi nei quali la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione piu' elevata" - anche quando essa "sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento" (paragrafo 2 del citato art. 2). Quest'ultima eccezione presuppone, evidentemente, che la legge interna contempli un potere di impugnazione contra reum, e quindi a favore dell'organo dell'accusa; essa implica pertanto il riconoscimento che tale potere - anche quando si tratti di impugnazione di merito - e' compatibile con il sistema di tutela delineato dalla Convenzione e dallo stesso Protocollo, come del resto conferma la legislazione vigente in buona parte dei Paesi dell'Europa continentale. 7.3. - Si pone l'accento, da ultimo, sul rapporto solo "mediato" che il giudice dell'appello ha con le prove (in tale ottica, si veda nuovamente la citata illustrazione dei relatori della proposta di legge A.C. 4604): reputandosi, in specie, che comporti una situazione di diminuita garanzia in rapporto ai principi di oralita' e immediatezza, ispiratori del processo penale nel modello accusatorio un assetto nel quale la decisione di proscioglimento di un giudice (quello di primo grado), che ha assistito alla formazione della prova nel contraddittorio fra le parti, puo' essere ribaltata da altro giudice (quello di appello), che fonda invece la sua decisione su una prova prevalentemente scritta. Ai fini della risoluzione dell'odierno incidente dl costituzionalita', non e' peraltro necessario scrutinare la condivisibilita' o meno di tale affermazione, la quale evoca tensioni interne al vigente ordinamento processuale, connesse al mantenimento di impugnazioni di tipo tradizionale nell'ambito di un processo a carattere tendenzialmente accusatorio. A prescindere, difatti, dal rilievo che l'ipotizzata distonia del sistema ove effettivamente riscontrabile - sussisterebbe anche in rapporto alle sentenze di condanna, per la quali il pubblico ministero mantiene il potere di appello, avuto riguardo alla possibile modifica in peius della decisione da parte del giudice di secondo grado come conseguenza di divergenti valutazioni di fatto (le quali portino, ad esempio, al mutamento del titolo del reato o al riconoscimento di una circostanza aggravante); e' assorbente la considerazione che il rimedio all'eventuale deficit delle garanzie che assistono una parte processuale va rinvenuto - in via preliminare - in soluzioni che escludano quel difetto, e non gia' in una eliminazione dei poteri della parte contrapposta che generi un radicale squilibrio nelle rispettive posizioni. All'obiezione, poi, che le possibili soluzioni alternative al problema dianzi evidenziato, almeno ove calibrate sull'attuale assetto del sistema delle impugnazioni, peserebbero negativamente sui tempi di definizione del giudizio, e' agevole replicare che neppure la ragionevole durata del processo - principio che, per costante affermazione di questa Corte, va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 219 del 2004; ordinanze n. 420 e n. 418 del 2004, n. 251 del 2003, n.. 458 e n. 519 del 2002) - puo' essere perseguita, come nella specie, attraverso la totale soppressione di rilevanti facolta' processuali di una sola delle parti. E cio' a prescindere dalla possibilita' - da piu' parti prospettata e che resta aperta alla valutazione del legislatore - di una revisione organica del regime delle impugnazioni, intesa ad eliminare le tensioni da cui, per quanto accennato, il problema stesso trae origine. 8. - Nel suo carattere settoriale, per contro, la novella censurata ha, inoltre, alterato il rapporto paritario tra i contendenti con modalita' tali da determinare anche una intrinseca incoerenza del sistema. Per effetto della riforma, infatti, mentre il pubblico ministero totalmente soccombente in primo grado resta privo del potere di proporre appello, detto potere viene invece conservato dall'organo dell'accusa nel caso di soccombenza solo parziale, vuoi in senso qualitativo (sentenza di condanna con mutamento del titolo del reato o con esclusione di circostanze aggravanti), vuoi anche in senso meramente "quantitativo" (sentenza di condanna a pena ritenuta non congrua). 9. - Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque ribadire che, nella cornice dei valori costituzionali, la parita' delle parti non corrisponde necessariamente ad una eguale distribuzione di poteri e facolta' fra i protagonisti del processo. In particolare, per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni - ferma restando la possibilita' per il legislatore, dianzi accennata, di una generale revisione del ruolo e della struttura dell'istituto dell'appello - non contraddice, comunque, il principio di parita' l'eventuale differente modulazione dell'appello medesimo per l'imputato e per il pubblico ministero, purche' essa avvenga nel rispetto del canone della ragionevolezza, con i corollari di adeguatezza e proporzionalita', che si sono a piu' riprese ricordati. Nella specie, per contro, la menomazione recata dalla disciplina impugnata ai poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell'imputato, eccede il limite di tollerabilita' costituzionale, in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e "unilaterale" della menomazione stessa: oltre a risultare - per quanto dianzi osservato - intrinsecamente contraddittoria rispetto al mantenimento del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna. Le residue censure dei giudici rimettenti restano di conseguenza assorbite.». Le ragioni poste dalla Corte costituzionale a fondamento della sua pronunzia appaiono adattarsi anche al novellato art. 36 d.lgs. n. 274/2000, nel quale sembra realizzarsi l'identica ingiustificata asimmetria fra le parti, censurata in relazione all'art. 593 cod. proc. pen. A cio' si deve aggiungere la irragionevolezza della norma che consente al p.m. di appellare le sentenza di condanna, in cui la sua domanda e' stata in parte accolta, ma non quelle di proscioglimento in cui la domanda e' stata integralmente rigettata, in violazione dell'art. 3 della Costituzione. La questione di legittimita' costituzionale appare quindi non manifestamente infondata. La questione predetta e' altresi' rilevante perche', laddove tale norma fosse giudicata costituzionalmente illegittima, questa Corte dovrebbe convertire il ricorso in appello. E' ben vero che, prima che venisse esclusa l'appellabilita' questa Corte ammetteva anche per tali sentenze il ricorso immediato per cassazione (Cass., sez. 4, sent. n. 43367 del 29 settembre 2003, dep. 12 novembre 2003, r.v. 226410: «in tema di reati di competenza del giudice di pace, avverso la sentenza, emessa da tale giudice, di non doversi procedere in ordine a un reato punito con pena alternativa e' consentito - accanto al rimedio dell'appello, previsto dall'art. 36 d.lgs. n. 274 del 2000 anche il ricorso per saltum in cassazione alla luce della generale applicabilita' dell'art. 568 cod. proc. pen.; tale potere e' peraltro riconosciuto sia al Procuratore della Repubblica sia al Procuratore generale presso la Corte d'appello, in virtu' del fatto che l'uso generico del termine "pubblico ministero" deve essere inteso come comprensivo di entrambi gli uffici cui e' riconosciuto il potere di impugnare.»). Tuttavia, quand'anche fosse stata intenzione del Procuratore della Repubblica di proporre comunque ricorso immediato per cassazione, secondo l'orientamento di questa Corte, «qualora l'impugnazione proposta sia non quella ordinaria ma quella eccezionale del ricorso per saltum, la Corte di cassazione deve dapprima interpretare la volonta' della parte, per stabilire di quale mezzo abbia realmente inteso avvalersi ed, in caso di dubbio, deve privilegiare il tipo ordinario di gravame. Qualora, pertanto, nell'atto di impugnazione non solo vi sia una formale denuncia di difetto e manifesta illogicita' della motivazione ma lo stesso contenuto delle censure, che letteralmente deducono anche violazione di legge, ad onta di tale formale qualificazione, le riveli come sostanzialmente, tutte, dirette avverso la valutazione delle prove in ordine ad una questione di mero fatto, il ricorso appare sostanzialmente proposto ai sensi dell'art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen. e va convertito in appello» (Cass., sez. 4, sent. 4264 del 5 aprile 1996, dep. 23 aprile 1996, r.v. 204447). Piu' di recente, con decisione che il collegio condivide, questa Corte ha affermato che «il ricorso per cassazione, proposto dall'imputato, che contenga tra i motivi anche la censura di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), relativa a carente motivazione in ordine all'elemento soggettivo del reato, non puo' essere presentato per saltum ma deve essere convertito in appello, ai sensi dell'art. 569, comma 3, del codice di rito». (Cass., sez. 6, sent. 3405 del 10 gennaio 2003, dep. 23 gennaio 2003, r.v. 223561). Poiche', nel caso qui esaminato, le doglianze contenute nel ricorso sono anche di merito, il ricorso dovrebbe essere convertito in appello. Deve pertanto essere sollevata d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 36, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, ad opera dell'art. 9, comma 2, legge 20 febbraio 2006, n. 46 per contrasto con l'art. 3 e con l'art. 111 dellla Costituzione della Repubblica.